Non so da quanto tempo sono qui. Ero solo un seme, forse caduto per caso tra le fessure del metallo o portato dal vento o da un uccello curioso. Ma ora sento. Il calore dei tubi, la vibrazione delle pompe sotto di me, la luce che filtra tra i fumi densi. Cresco. Mi allungo.
Intorno a me, la fabbrica respira, sbuffa, tossisce. È viva ma stanca. Le sue pareti di ferro scricchiolano sotto il peso degli anni. Mi arrampico su un tubo, avvolgo una ringhiera arrugginita e le altre piante mi seguono. Alcune escono dalle crepe, altre si fanno strada tra i cavi. Ci parliamo con silenzi verdi.
Non so cos’è un "motore", ma so che adesso ha smesso di girare. Non conosco il significato di "energia", ma sento che ne rimane poca. Quello che so è che la linfa scorre, e ogni giorno un piccolo fiore si apre in mezzo all’acciaio. Io ci sono. Noi ci siamo.
Ogni tanto, una lampadina si accende. Breve, tremolante. Forse è un ricordo della fabbrica. Forse è un saluto. Noi rispondiamo con il fruscio delle foglie.